Ushuaia

23 febbraio 2010, martedì

Oggi giro in barca sul Canal Beagle in direzione dell’Oceano Pacifico; in questo tratto il canale fa da confine tra Argentina e Cile. Siamo su di un catamarano di recente costruzione che tiene bene il mare nonostante questo sia leggermente increspato. Dopo poche miglia dalla partenza troviamo una colonia di cormorani fermi su di un costone che declina a mare; da lontano possono essere scambiati per pinguini perché sono fermi ed il colore bianco e nero è simile. Una volta vicini non si possono avere dubbi anche perché… volano; col catamarano ci avviciniamo tantissimo e loro sono tantissimi ed occupano ogni centimetro quadrato del costone dal mare in su. Spettacolare.
Riprendiamo la navigazione e ci avviciniamo al faro che assieme ai pinguini ed ai carcerati è un’icona di Ushuaia. Il Faro Les Ěclaireurs è alto una decina di metri ed è colorato a strisce orizzontali bianche e rosse ed è costruito su una di tre isolette vicine tra loro; su una di queste, poco più grande di uno scoglio, c’è una nutrita colonia di leoni marini che condividono pacificamente lo spazio con un po’ di cormorani. Alcuni di questi leoni sono in acqua e, con le loro evoluzioni, sembra che giochino mentre gli altri sono sugli scogli a crogiolarsi al sole… che non c’è o a grattarsi graziosamente con le loro zampette palmate.
Due cormorani becco contro becco sembra che si bacino. E’ strano come un’isoletta su tre sia affollata di leoni marini e cormorani e le altre due apparentemente simili siano completamente deserte. Un grande faro su di una piccolissima isola in mezzo al mare ha un fascino tutto particolare.
Dopo aver girato lentamente intorno al faro riprendiamo la navigazione verso la costa argentina; ci sono tanti albatros che sfrecciano bassi sull’acqua tagliandoci la strada. Man mano che ci avviciniamo alla costa vediamo sempre più pinguini ma sono solo una piccola parte; appena giriamo l’angolo ci troviamo davanti una spiaggia ghiaiosa piena zeppa di pinguini di tutte le età che entrano o escono dall’acqua o che stanno semplicemente fermi… tra un passo ed il successivo.
Col catamarano il pilota arriva praticamente sulla spiaggia toccando il ghiaione con la chiglia senza che i pinguini mostrino il benché minimo segno di insofferenza anzi, quelli che stanno per entrare in acqua sfruttano tranquillamente lo spazio libero tra le due carene del catamarano.
Ci sono i pinguini di Magellano che conosciamo bene dalla Penisola di Valdés che hanno zampe e becco grigio scuro e quelli di Vincha, o Gentoo, o Papùa che hanno becco e zampe giallo arancio; questi ultimi sono in netta minoranza. Un gruppetto di questi sono proprio davanti a noi e per tutto il tempo che siamo stati fermi non hanno fatto un passo; sono leggermente più grandi dei Magellani che da adulti arrivano ai settanta centimetri d’altezza.
Riprendiamo la marcia ed attracchiamo dopo un po’ al piccolo molo della Estancia Harberton. Questa fattoria è stata la prima della Terra del Fuoco, è a pochi passi dal mare ed ha una bella collina boschiva alle spalle; un tempo l’economia dell’azienda ruotava intorno alle pecore ma ora che è diventata Patrimonio di qualcosa si è trasformata in meta turistica. Una ragazza ci fa da guida e ci porta a visitare piccoli capannoni in cui sono conservate barche d’epoca ed antiche attrezzature cantieristiche servite per costruirle. Interessanti le ordinate delle barche, curve come boomerang, che venivano ricavate dai tronchi curvi di ñire.
Camion d’epoca come jeep, trattori Ferguson, auto Triumph sono negli angoli di rimesse e capannoni e rappresentano i mezzi di trasporto terrestri della lana come i vecchi barconi tirati in secco testimoniano i trasporti via mare dei prodotti dell’azienda verso la vicina Ushuaia.
Interessante il sistema di tosatura meccanizzato. Un motore a scoppio trasmetteva il moto, grazie ad una cinghia, ad un lungo asse posizionato in alto all’incrocio tra la parete verticale ed il tetto spiovente; a quest’asse erano collegate tante pulegge coassiali allo stesso. Queste a loro volta per mezzo di cinghie ritrasmettevano il moto ad altrettante pulegge e da qui attraverso tre assi collegate tra loro da giunti sferici il moto arrivava alle macchinette tosatrici.
Dietro un recinto inizia una boscaglia; c’è subito un piccolo cimitero. Poche croci bianche con nomi e date; c’è anche il fondatore della fattoria. Su una croce c’è scritto: nativo; sembra che sia stato trovato morto nella terra della fattoria e che gli sia stata data degna sepoltura. In questa boscaglia ci sono tutte e tre le qualità di alberi caratteristici della Patagonia: coihue, ñire e lenga.
All’occhio inesperto come il mio sembrano uguali, infatti sono della stessa famiglia. Il primo ha un tronco dritto e grosso, molto alto ma con legno poco pregiato; era usato dai nativi per la costruzione delle piroghe. Il secondo è storto, non molto alto ma con legno pregiato; era usato per le ordinate delle barche mentre oggi è usato per le sterminate staccionate dove dura circa vent’anni. Il terzo cresce diritto ma il suo legno è meno pregiato del ñire; è usato anch’esso per le staccionate ma dura in media sei anni.
Le foglie del canelo somigliano a quelle del nostro alloro ma più chiare e più tenere; sotto la foglia crescono delle palline inizialmente bianche che mature diventano nere. Sono usate in cucina al posto del pepe nero e del peperoncino; è molto piccante.
Il pan de los indios è un fungo che cresce sui nodi del legno degli alberi, nodi numerosi e di grandi dimensioni; è di colore rossiccio ma questa non è la stagione giusta. Ne troviamo qualche pezzetto nero, vecchio, non più commestibile. E’ insapore e privo di nutrienti e veniva usato dagli indios nei momenti di magra per ingannare lo stomaco.
Mangiato un ottimo brodino di cordero con molta carne. Torniamo indietro con un bus; dopo poco cominciamo a vedere le dighe che costruiscono i castori. Questi animali non sono autoctoni, furono importate 25 coppie nel lontano 1946 dal Canada per sviluppare l’industria delle pellicce; il clima meno rigido di quello canadese ha però fatto si che queste bestiole sviluppassero una pelliccia meno folta e quindi poco commerciale. Favoriti dalla mancanza di cacciatori umani, poco incentivati, e di cacciatori animali come l’orso o il lupo non presenti nella Terra del Fuoco, si sono moltiplicati a dismisura ed oggi sono una minaccia per il bosco. Con i loro incisivi segano il tronco degli alberi alla base per abbatterli e mangiarne agevolmente i germogli; con il legname costruiscono le loro tipiche dighe che allagano vaste porzioni di bosco e che contribuiscono a far seccare i malcapitati alberi che si trovano da un giorno all’altro le radici sommerse dall’acqua.Ora il governo argentino per correre ai ripari sta favorendo la caccia hai castori; ne vengono ammazzati circa diecimila all’anno ma non basta. E’ difficile vederli, sono ben nascosti ma le dighe e le macchie di alberi secchi ne tradiscono la presenza.
Nella zona è massiccia la presenza degli alberi bandiera così chiamati perché sono spettacolarmente piegati dai forti venti. Una caratteristica dei boschi patagonici è la massiccia presenza di tronchi secchi; a parte le zone infestate dai castori, non c’è una moria di alberi superiore ai nostri boschi. Il motivo è che il forte freddo invernale congela i tronchi secchi e ne impedisce la decomposizione mentre il freddo estivo non la favorisce. Per questo motivo i tempi di decomposizione si allungano a dismisura tanto che i tronchi secchi bianchi come l’avorio sono oramai divenuti una icona… boschiva.

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